PRELUDIO ALLE TEMPESTE DELL’IO; QUANDO LA POESIA INTERROGA IL DOLORE
( introduzione filosofica alle poesie di Marino Congedo )
di Francesco Rizzo
È consuetudine pensare che nel quotidiano vivere di tutti noi, quel che conta più di tutto per sopravvivere si trovi circoscritto nei beni materiali che una confortevole vita può dare, e nel momento in cui ci si relaziona all’altro, si vive questa relazione ( da entrambe le parti ) come una chiusura sempre più asfittica nel proprio egoismo. Si vive sempre la relazione con l’altro in base a ciò che l’atro ha e mai in base a ciò che l’altro è . Nonostante ciò, accade talvolta di addentrarci in situazioni, oramai del tutto rare, dove il soggetto che incontra il suo interlocutore si relaziona ad esso mostrando come punto d’incontro non un surrogato della società dei beni di consumo, ma il senso stesso dell’esistere, condensato in maniera esemplare nella parola poetica; in ciò che questa dice all’altro e in ciò che l’altro percepisce di essa. Accade talvolta di addentrarci in territori simili, dove incontrando la poesia di Marino Congedo si ha a che fare con un poeta che nel “dire” della sua poesia, non soltanto si percepisce l’eleganza del pensiero, ma soprattutto si percepisce il suo vissuto.
La sua raccolta poetica, dal titolo: Io, tra cielo e mare, mostra una poesia che va oltre le attinenze estetiche, abitudinarie e ripetitive, dettate da una tradizione letteraria che a volte rischia di essere ammuffita se non ridondante. Nella sua poesia, al contrario, ciò che l’interlocutore trova è il vissuto sia della parola sia del poeta che l’ha scritta. Poesia e poeta sono un tutt’uno, e, se a volte si separano, lo fanno solo per l’ebbrezza di ri-incontrarsi ancora un’altra volta; vivendo l’emozione dell’incontro ma soprattutto della separazione. Già nel titolo di questa silloge risuona un pensiero che non è stabile e che non ha punti d’appoggio. L’ io del poeta , infatti, è tra cielo e mare: è in un continuo movimento che dall’elemento liquido lo trasferisce nell’elemento aeriforme, per poi ancora una volta sballottarlo o adagiarlo (dipende dalle situazioni) fra queste due realtà che non hanno nulla di stabile o di circoscritto. Si coglie dunque la parola che il poeta, cerca di strappare, al volto nascosto dell’esistenza. Un titolo, ritorno a dire, per nulla irenico o superficiale.
Il suo modo di fare poesia è più un atto dell’esperire che del pensare, infatti, nel momento in cui egli cerca di descrivere o di circoscrivere quella paura che per gran parte della sua vita lo ha avvinghiato, senza mai però del tutto soffocarlo, perpetuamente si rinnova nel suo Io, che, essendo sospeso fra cielo e mare, fa i conti con una temporalità orizzontale che: « Slega / i versi / e spariglia le parole. / Il ricordar / mi tormenta »[1].
Si è poeti soprattutto perché si soffre e non si è sofferenti perché si è poeti! Questo lo mette in chiaro subito il nostro. Egli infatti continuamente è alla ricerca di un raggio di luce solare o spirituale, nel momento in cui guarda quel cielo carico di nuvole e bagliori di fulmini. Il suo occhio osserva la tempesta che si carica di vento indomabile; il suo io ne contempla la minaccia di essere spazzato via. Ma al tempo stesso, cerca pure un vascello che possa dargli qualcosa di stabile nel momento in cui le onde del mare si fanno anch’esse pericolose: «Passerà / ancora una volta / passerà. / Verrà la luce e / come acqua di mare / sulle rive stanche delle nostre anime / laverà peccati e rimorsi »[2]. Ecco allora che si scorge nella sua poesia l’elemento quasi onnipresente di una cura, che porta il poeta, in molti passi del suo scrivere, a distogliere lo sguardo da se stesso, nel momento in cui le contraddizioni sono così forti, tanto da non essere in grado di sopportarle, come avviene nella poesia “Mamma” dove i versi scorrono come un travaglio intimo. In questa poesia, nel momento in cui il poeta riconosce dopo un lungo sonno la propria madre, appare alla nostra coscienza di lettore, una doppia sofferenza; da questo hic et nunc sembra che siano entrambi a soffrire le doglie del parto: «E tu chi sei? Dove sono? / Ha gli occhi stanchi e gonfi ma anche un po’ / bagnati. / non fa in tempo a piegarsi su di me che inizio, come un ossesso a maledirla / Sorride e noncurante mi dice: / Sono la mamma! / Breve, chiara e netta. / Non può essere vero… / A tentar di ricordare, prima ch’io sia, crollo e / mi addormento esausto e così pure i tanti / giorni che verranno»[3].
Nella poesia, accade che un figlio possa partorire la propria madre, come la madre partorire nuovamente quel figlio che sembrava esser morto. Per questo, comprendere la poesia di Marino Congedo, è prima di tutto rendersi conto che i suoi versi, non sono semplici parole morte, ma al contrario sono vivi, e perciò attestano la resilienza vibrante che ogni parola possiede.
In questo senso l’approssimarsi alla sua parola vuol dire prima di tutto compartecipare all’esperienza del dolore, o quanto meno all’esperienza di una gioia appena intravista; e che proprio perché intravista, allora certa: «Ma la mia pace / è all’orizzonte / dove sono i gabbiani / cui affido impietoso / il mio eterno / grido d’amore / o terra mia»[4]. La sua poesia è uno stare insieme nella parola che poetando indica un cammino di trasformazione per quel che concerne l’esserci nel mondo; certamente essa appartiene a quel “ dire ” che porta all’ascolto supremo del Logos. È una poesia che ci invita a fare silenzio e che come scrive Heidegger, nel saggio sulla poesia di Hölderlin, a paradigma di una poesia che si fa ascolto:
«Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è piuttosto, al contrario, il presupposto. Ma anche il poter ascoltare è in sé a sua volta orientato in relazione alla possibilità della parola e di essa ha bisogno. Poter discorrere e poter ascoltare sono cooriginari. Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire : possiamo ascoltarci l’un l’altro. Noi siamo un colloquio, il che significa al contempo sempre : noi siamo un (solo) colloquio. Ma l’unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è manifesto quell’uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci»[5].
Sono convinto che Congedo sottoscriverebbe in pieno questa considerazione di Martin Heidegger, come sono convinto che lo spazio in cui si trova la dimensione più profonda della sua poesia è uno spazio che coinvolge tutti noi, in quanto abitatori del medesimo mondo, di una medesima condizione fenomenica, di una medesima speranza nelle cose che sono in luce e proprio per il fatto di essere in luce, devono essere tenute in cura e con cura, perché delicate come una foglia esposta ad un soffio di vento: «Lassi di tempo / come scie di luce / predati dal vento / ostile al nostro / effimero delirio. / I tuoi come pure i miei / languono all’istante / e vinti cedono / allo struggimento e al pudore / di una caduca pulsione. / È tutto in uno sguardo / che smuove magico / l’aria fra di noi»[6]. Attraverso l’apertura all’altro, che vivendo nel mondo, occupa anche lui uno spazio di disperazione e gioia, la poesia di Marino Congedo non vuole essere affatto la maschera apotropaica che tiene lontano gli spiriti del male; come si era solito affiggere sulle cattedrali o sui palazzi signorili, ma, attraverso il suo stesso manifestarsi come angoscia, si mostra a noi con tutta l’enfasi e la fragilità di una farfalla in volo, la quale, facendo sosta sui nostri pensieri, seduce a volte le nostre aspettative più basse e brutali, ed una volta sedotti e ammaliati dal suo dire, ecco che ci porta più in alto; ad una comprensione superiore dell’esistenza.
Qui le cose non sono più rivestite di sterile e assordante dolore, ma possiedono l’apertura al senso della gioia, dove le congiunzioni dell’essere amati con quelle dell’amarsi nell’Essere; sono in perfetta simbiosi. Ogni istante pertanto cerca il proprio spazio irripetibile, ed attraverso il suo dilatamento cronologico, diviene “ io-che-si-fa-altro ” : «E se un attimo / non fosse un attimo / ma solo / puro senso d’apatia. / O se mi ricordassi / per un momento / di cercarmi / e ascoltar dentro / le emozioni tue»[7].
Dove pure, al succedere della notte, vi è l’accadimento della poesia, tanto forte da togliere il respiro: «Chiedo pace / alle parole. / Respiro piano / ma troppo forte è / il rumore dei pensieri»[8]. Lo scrivere poesia dunque diviene anche assunzione consapevole di una temporalità che distrugge ogni attimo e che passando, sembra andare nel nulla. Per questo la poesia per Marino Congedo è anche un soffermarsi nella dimensione non tanto di uno spazio , che come abbiamo visto, sembra non avere appoggio in quanto “sospesa” tra cielo e mare, ma piuttosto è una dimensione temporale, la quale, trova il suo vertice di nobiltà autoritaria, nell’atto della scrittura: qui infatti si capovolge il dramma del divenire di ogni cosa, e dunque di ogni evento, e in questo capovolgimento, permesso soltanto all’ io del poeta, ecco che questa temporalità dell’evento si mostra nel suo intero, resistendo a ciò che diviene e divenendo essa stessa ciò che non diviene: «Rapace / tu sii maledetto. / Metafora del tempo / dal volo lento e / indolente / latore di intenti e / scherno di amanti. / Sciacallo di sogni / persuasi rubati e poi per sempre / abiurati. / Sparisci ora / oltre le nuvole / e lascia il cielo / all’estro audace dell’uomo / che si illude pure lui / di volare come fai tu»[9]. Da questa prospettiva, l’azione che ferma ogni temporalità immanente, la riscontriamo anche nell’analisi che ne fa Karl Jaspers, il quale scrive:
«L’errore è: vivere a partire dal contenuto di uno scopo, come se là, alla fine si trovassero vita e soddisfacimento, rinunciando così al presente. Il contenuto stesso è vero e reale solo nella misura in cui è esperito nel presente in modo sufficiente, nell’attuazione, nella realtà temporale stessa e non in un momento unicamente atteso (tramite la cui attesa io mi inganno sul mio fallimento nel presente). Infatti la realtà non è alla fine, non all’inizio né in alcun “adesso” di per sé, ma solo nel tutto della forma temporale che anima ogni istante»[10].
In fine, il collocarsi da parte del poeta “ tracielo e mare ” , rappresenta simbolicamente il luogo dell’irripetibilità dell’urto; dove l’impatto estenuante con la terra rimane sospeso nella sua inesistenza e nella sua irripetibilità. Da questo non-luogo, si può forse sperare di aver fatto i conti con un esperienza oramai avvenuta e finalmente lasciata alle spalle[11] . dalle altezze di questa sospensione ontologica, si avverte il respiro ancestrale della vita, del battito cardiaco che pulsando genera anche sentimenti d’amore: è ritmo vibrante, dove si scorgono gli affetti dei propri figli, della donna amata, dei familiari e di chiunque ha una carezza d’affetto. Questo ritmo ancestrale inscrive l’essere umano nel solco originario della sua venuta al mondo, che risuonando dalle profondità del mistero che siamo, respira ancora aneliti di vita.
Francesco Rizzo,
Poeta e Filosofo;
Laureato in Filosofia presso l’Università degli studi del Salento.
[1] Marino Congedo; Io… tra cielo e mare. “ Ora dormi” p. 25.
[2] Ivi. p.30.
[3] Ivi. p.36.
[4] Ivi. p.24.
[5] Martin Heidegger; La poesia di Hölderlin. Adelphi edizioni, Milano, 2005. p.47.
[6] Marino Congedo; Io… tra cielo e mare. “Nei tuoi occhi” p.16.
[7] Ivi p.14.
[8] Ivi p.21.
[9] Ivi p.18.
[10] Karl Jaspers; Della Verità; Logica filosofica: libro III, Il compimento dell’esser-vero. Bompiani, il pensiero occidentale. Milano, 2015, p.1811.
[11] Cfr. p. 41.