UN UOMO ELEGANTE
La sedia a ruote, silente, procede e, lungo il corridoio, si affacciano le stanze a spiare chi io sia.
Armando, nella sua camminata, esibisce il fantasmino bianco a corredo di una divisa troppo stretta che ridicolizza il suo andante fiero.
Procediamo insieme e nel tragitto mi tornano, a lapsus, le parole della mia bella che, solerte, disponeva, richiudendo la cartella, la mia conoscenza a tal Giuseppe Paramonti.
Chi sarà costui e cosa vorrà da me!?
La corsia sta per finire e il capolinea è una stanza dalla porta larga opacizzata.
Il mio accompagnatore mi sfiora la spalla e si dirige spavaldo a suonare per annunciarmi chissà a quali presenti nella stanza.
Mi guardo rigido attorno a camaleonte.
Insieme a me, altri offesi aspettano d’esser chiamati, pronti, una volta varcata la soglia, a sparire senza che io abbia potuto interrogarli con lo sguardo.
Scàlpito nell’attesa e mi preparo forte a una battaglia nuova.
Ovunque sia e chi egli sia, non importa. Non vedo l’ora di affrontarlo e capire come possa essere tanto importante e avere tanta considerazione agli occhi della mia lei.
La sagoma e il goffo andare di Armando appare dietro la vetrata e, una volta aperta la paratia, mi tira dentro, lesto, richiudendo la porta dietro a sé.
Davanti a me il capolavoro manzoniano prende forma e, in ciò che ora vedo, riconosco il lazzaretto dei giorni nostri.
Uomini e donne di tutta l’età stesi inermi su giacigli di lettini, con al fianco incamiciati, che parlano loro per distrarli e nel contempo praticare manovre avulse alla loro volontà.
La sala è artificialmente luminosa, ingombrata da lettini disposti all’occorrenza, impreziosita da specchi ad altezza uomo, cyclette, tappetini e, in fondo alla stanza, da ingegnosi macchinari di cui, però, disconosco l’uso.
Dall’angolo opposto un uomo, col camice sbottonato avanti, che lascia intravedere un vestito in cravatta, mi viene incontro e con sorriso canzonante, che sa di sberleffo mi fa:
– Buongiorno Cutrò, io mi chiamo Giuseppe Paramonti! Tè invece hai voglia di dirmi come ti chiami?
Il suo modo di vestire, tanto curato quanto originale nel contesto, lo rende benvenuto nel mio mondo, per cui mi appresto a dare seguito alla sua domanda.
Tardo un po’ ma confido nell’articolar la bocca, da troppo tempo resa muta dall’indifferenza e dal mutismo.
Coordino e fisso i miei occhi sopra i suoi, raddrizzo il collo e dico:
– Alberto Trentin.
Scoppio a ridere subito e lui con me.