Era stata una giornata, fino ad allora, ancora vuota tutta da riempire dei mille volti e vissuti di cui sono fiero d’esser parte.
La divisa è indossata, i monili professionali che la adornano ognuno al suo posto.
Nella hall della clinica raccolgo e scambio i primi saluti che scaldano e allietano da sempre l’inizio turno.
Sono ancora ripiegato sul front della reception a sfogliare i programmi della giornata, quando la voce familiare e infervorita di Anna Maria mi invita a voltarmi.
Al suo fianco un uomo dai capelli morbidi e canuti.
La sua sagoma incute rispetto, tanto è salda e di bell’aspetto.
-Marino… riconosci questa persona? mi dice sorridendo gentilmente.
Rimango fermo a far finta di indovinare, giacché è nota la mia labile memoria fotografica.
– Dai Marino… Aggiungici un papillon ed una giacca! insiste a dirmi Annamaria.
È un attimo, un dejà vu di emozioni.
Con voce tremante, lo guardo e dico:
– Il figlio del professor Martines!
I tratti sono i suoi e, ancor più, la sua signorilità richiama e ricorda quella del compianto padre.
Gli occhi, i miei e i suoi, in un attimo diventano gli stessi e si caricano di intensi significati.
Ci abbracciamo.
Da quel momento tutto diventa spontaneo e, per me, quell’incontro si rivela un concentrato di stati d’animo difficili da trattenere.
Malgrado sia passato, infatti, già del tempo dalla sua dipartita, i riferimenti e gli aneddoti dei tanti pazienti, rincontrati e al tempo curati dal Prof, hanno continuato a tenere viva la sua memoria e, con essa, la mia mai celata ammirazione per il suo approccio olistico e sapere medico con cui si accostava ad ascoltare ogni paziente.
La visita si svolgeva rigorosamente sempre nello stesso ambulatorio tirato a lucido e impreziosito dal suo ferma carte posto all’angolo in alto a destra del tavolo.
Lo ricordo come se fosse ora.
In piedi sulla porta chiamavo in ordine il primo della lista.
Da dietro la colonna, una volta letta e svelata l’identità, comparivano uomini o donne, eleganti alla loro maniera, con elenchi di acciacchi dalle più disparate sintomatologie.
A tutti davo ascolto e li confortavo. Bastava poco. Un sorriso e le loro mani raccolte tra le mie.
– Prego. Avanti. (…)
Nel frattempo il Prof arrivava ed entrava con la sua aura di sapienza e raffinata disinvoltura.
Come era solito, poggiava la mano sulla mia spalla e chiedeva, interrogandomi, i primi parametri e le mie intuizioni cliniche.
Credo, con orgoglio, di non essere stato mai impreparato ma, anzi, amavo sorprenderlo proponendogli le mie disquisizioni, frutto dello studio e approfondimento serale.
Mi ascoltava con interesse e me lo faceva capire con un affettuoso sbuffetto. Usciva per attenderci, poi, nella sua stanza.
I pazienti siedevano dinanzi a lui, oltre la scrivania, desiderosi di ascoltare il suo linguaggio accademico e forbito. Non mancava mai di sorridere e scherzare, ma alla fine impugnava la sua preziosa penna a inchiostro di china con cui impartiva i suoi dettami. Tutto rigidamente riportato su fogli spessi ed ingialliti, i suoi, quelli personali.
Al termine si alzava e porgeva la sua mano curata e noccoluta.
Le visite erano sempre tante, anche fino a tarda sera.
Ce ne andavamo sempre insieme.
Parlavamo e non mancava mai di ringraziarmi, così come pure io.
– Buonanotte dottor Marino, a domani, sempre in gamba eh!?
– Buonanotte professore, grazie di tutto!
– Ma va la… diceva.

A ricordo di una inesauribile stima per il professore G.Martines.