Nel lazzaretto riecheggiano in testa, alla buon’ora, le ciarle delle infermiere, deste e pimpe a trascrivere formule e preparare incantesimi impartiti.
La mente le riconosce, per cui sa d’esser sveglia.
Ha solo paura di aprire gli occhi e affrontare quello che, nelle stanze oscure della memoria, pare proprio non ci fosse stato mai. Sono, giacché, costretto dal mio caro affianco, che mi rivolge il suo primo e stirato:
– A leeè, bongiooorno.
Fatico nel roteare la testa, lo guardo e sospiro.
È un ragazzo intelligente, educato e buono che ha da subito compreso i miei imbarazzi e i miei mutismi, per cui inizia a canticchiare stornelli e musiche a cappella.
Lo guardo, sono ammirato.
Col suo arto più muscolato tira, afferra e si lascia scivolare sulla comoda, sapientemente posizionata, al lato, la sera prima. In posizione seduta, si dà contegno e dignitosamente raccoglie dal suo stipetto pochette, intimo e tuta e si avvia in bagno, solo.
Sono stupefatto dalla tanta tenacia e dal suo incedere malgrado le ferite che nel suo animo sopporta.
Sono fortunato, in questa odissea, ad aver affianco un tal compagno.
La testa è ancora girata con lo sguardo perso, che, ad un tratto, da fuori il lato lungo della porta appare la mia giovane e bella dottoressa in abiti dismessi dal contegno lavorativo, che chinando il capo al lato, mi osserva e sorride luminosa per poi dileguarsi con uno sfarfallio lesto e furtivo della mano.
Sto tremando, ma non per i crampi di cui il mio corpo è pena, ma per l’eccitazione che l’inatteso saluto ha generato in me.
Di lì a poco entra, in stanza, una giovane donna, con appresso un carrello ricolmo di teli, spugnette e vaschetta, che con modi gentili, si avvicina, mi solleva con lo schienale a letto e supplisce alla mia igiene quotidiana. Una volta terminata, mi veste in tuta acrilica e mi pone a consumare la colazione, da solo.
Sono scostumato a non ringraziare neppure, ma sono ancora assorto, nel ricordo dell’inaspettata visita mattutina, che non mi accorgo della nuova sfida che mi si pone avanti: una opaca tazza di latte e caffè d’orzo, un cucchiaio in busta sigillata e due fette biscottate.
Perlustro attorno rapidamente; Nico è ancora in bagno e, prendendo a esempio lui, con l’arto libero da impedimenti fisici, ma rallentato da chissà quali tipi di freni cerebrali, porto alla bocca la posata imbustata e la scarto dall’angolo coi denti e così pure faccio con le fette.
Mi rincuoro e chino il capo.
Il latte è scremato e privato di qualsiasi odore e gusto, in cui affogano le insipide biscottate.
Il mio coinquilino al ritorno osserva, annuisce soddisfatto e accenna un canzoniero:
– Seè vedeeemo.
Tant’ è che, dato un colpo di spazzola ai fluenti capelli, con la sua carrozzella, guidata magistralmente, solleva l’arto abile a mò di saluto e sparisce.
Dalla finestra faccio in tempo a veder le alte chiome degli olmi goder del sole appena nato che, inavvertitamente e senza alcun sospetto di altra visita, mi si fa incontro Armando.
Il suo saluto è sornione, cui fanno eco i miei rimbrotti, che mi fa:
La tu bella ha scritt in cartella che stamattin te devo de portà inizià la terapia occupazionale.
Inteso come fosse suo l’intendimento, mi lasciai alla sua guida.
Mi trovai, in carrozzella, ad affrontare percorsi nuovi, stanze e corridoi insoliti che mi scortavano lo sguardo verso le sue intenzioni.
Proseguimmo, senza mai dir nulla.