ARMANDO

Nel mentre sono seduto con Marinella affianco, bussano alla porta, che non si fa in tempo a dire:
– Avanti, che già il buon Armando irrompe in stanza a rompere l’attenzione e il precario contegno dei presenti alle loro occupazioni.
Dall’angolo buio della stanza scatta la bella Carla, che redarguisce il malcapitato, che nulla ha fatto per non meritarselo. A dire il vero, mi peno più io per lui, che non egli stesso per il torto fatto alle superiori e a noi moribondi, che approfittando della situazione, cediamo e ci arrendiamo dalle posture impartite e mantenute dalle operatrici.
Armando è un portantino e, come previsto dal suo mansionario, se ne infischia.
La fisicità, le movenze e i suoi atteggiamenti sono tipici e meglio non potrebbero addirsi, a chi, come lui, esegue funzioni, di apparente inutilità, in un contesto in cui tutti gli operatori sembrano presi a rivestire il proprio ruolo con il massimo contegno.
Ai miei occhi, il suo personaggio sembra un candido esempio di quel che penso e rimugino nelle notti, a colloquio con la luna, sulla condizione umana e sul ruolo del destino nella vita di ognuno.
Si presenta al mondo come un sempliciotto, come un uomo cui non importa esprimere dissenso o far polemica.
Lui, la mattina, si sveglia e con la sua vecchia auto scassata arriva al lazzaretto e dritto, con in volto la stampa d’un sorriso, fa il suo ingresso, raggiante e gongolante, tra chi lo incrocia da anni e nulla da lui pretende.
A tutti è pronto a dire sì e si premura che ogni sua azione sia notata ed elogiata.
Manca poco al compimento della missione a lui affidata dalla caposala, su cui non mi pronuncio, tanto poche sono state le volte, cui ho incrociato la sua incerta superbia all’uscita dal box col mio calesse.
Siamo giunti in stanza e la luce naturale, di cui è pervasa, è più luminosa dei led dei corridoi bui e internati dell’edificio.
Armando sistema me e la carrozzella con millimetrica precisione. La manovra eseguita raccoglie il mio gradimento e di questo lui ne sembra fiero e pago.
Nico non è in camera e mi rattrista l’idea di restare già da solo ad agognar la luna alla finestra, così blocco, con gli occhi, ogni possibile via di fuga del poveretto che indietreggiando sulla via dell’uscio, torna a me e resta in piedi ponendo le terga allo stipetto.
Sollevo il capo dalla afflizione del pericolo scampato e lo ringrazio.
Riconosco nel suo gesto la sua dote vera e mi ravvedo sul suo conto e sulla nobiltà dell’animo suo. Di colpo, si innescano in testa mille ragionamenti sul suo fare, che mi fanno intendere il suo evitare i chiacchiericci di reparto e di come, invece, sia pronto e dotto ad ascoltare i silenzi dello stesso, per soccorrere chi, come me, richieda la sua presenza vuota, che tanto bene fa a chi è ripudiato a patire gli sconquassi di un’anima abbandonata e sola.
Parla solo lui e mi diverte ascoltare il suo ciancicato romanesco diverso dal più edotto e colorito idioma del mio coinquilino romano di Trastevere.
Nel suo parlare, noto come la rima e i suoi occhi esprimano instancabile gaiezza e gioia, che non intendo interromperlo.
Un senso di vuoto nella pancia, intanto, presagisce l’ora del pranzo, in cui dovrò raccogliere le forze ed affrontar la fatica per assaggiar le pietanze.
La mia condizione non mi permette di seguire lunghi discorsi, cosicché le palpebre e la testa s’appesantiscono e cado, seduto, dove tutto tace e nulla vedo.