ALLA FINE…IL SORRISO
In posti come questi, non si ha il bisogno di incontrare o parlare con qualcuno, per capire di non essere come quelli fuori.
Qui, ci sono centinaia di vite a cui non sarà data mai l’opportunità d’un vivere normale.
Qua dentro, siamo come uomini e donne, che si trascinano, veniamo sospinti, accompagnati e che necessitiamo di surrogati o d’esser rimpiazzati.
Tutti, indistintamente, molto introversi.
Abbiamo gli occhi lucidi, lo sguardo fisso e il corpo ricoperto di ferite, dentro e fuori.
Col tempo, ho capito di poter muovere le pupille e distogliere lo sguardo da quel maledetto punto fisso su di me.
All’inizio, lo ricordo solo per raccontarvelo, ero certo che, da un momento all’altro, sarei stato risucchiato in un vortice, in un’altra dimensione e tenuto intrappolato insieme ad altri reietti.
Le giornate perciò, un po’per tutti, trascorrono nella muta attesa di qualcosa molto lontana, dalla comune realtà.
Quel che è certo, è che si diventa molto introspettivi, plasmabili dagli umori intorno e uditori astanti anche dei sibili di vento che attraversano la stanza.
Comunque…
Questo lungo preambolo è stato necessario per spiegarvi le intuizioni e le sensazioni avute a primo impatto dalla nuova fisioterapista, tale Annarita Colombo.
Una giovane donna dall’aspetto e dal carattere forte anche con noi indigenti e di questo, ne ebbi riprova, sia durante la nostra prima conoscenza, in cui non ci fu alcun sorriso di circostanza, sia dalla postura con le terga rivolte alla malcapitata, prima di me.
Il modo spicciativo, con cui avvisava Armando del termine della seduta fisioterapica in corso, indispettì la mia, già, permalosa sensibilità.
Rapidamente, mi avvicinò al lettino acciuffando e tenendo stretti i braccioli in finta pelle consumata.
Altrettanto risoluto fu lo scambio tra la donna, nelle cui mani fui concesso dalle mani dell’Armando e il mio posizionamento sul lettino.
Non ebbi neanche tempo di accompagnare i gesti col respiro, che già, mi trovai riverso pancia all’aria!
Questa sua solerzia mi colse impreparato, giacché, ero divenuto bravo ad anticipare e accompagnare i movimenti, scansando agli operatori la fatica di gestire la mia mole.
Non potendo contare su questi innocue furberie, per aggraziarmi poi, un trattamento più clemente e indulgente, non mi restò far altro, che annuire e seguire i primi ordini da lei inpartiti.
Come ultimo fruitore di metodiche e conoscenze officinali intuì, subito, come dietro la sua irruenza, si nascondesse un’abile conoscitrice dei fasci muscolari che sottendono al movimento di ogni arto e dita delle mani.
Se già muovere un braccio piuttosto che una gamba, mi suscitava tanto dolore, l’allungare uno per uno ogni muscolo estensore delle dita, scatenava tormenti tali che, neanche nei più lontani meandri della mente, avrei mai immaginato di poter sentire.
Sono dolori lancinanti e ingestibili che non hanno un’origine precisa, tant’è che la mia bocca accompagna ognuno d’essi con innominabili improperi, di cui non manco di chiedere venia alle presenze femminili.
Un po’ per controllare e domare tali supplizi, un po’ per ricreare antalgiche flessioni, sono colto nel corpo da continui spasmi, quasi fossi un ossesso.
La fredda austerità della controparte, ad un certo punto della seduta, si scioglie in un sorriso per dire:
– Bravo Albè… Sei un tipo tosto tu! A domani.
La guardo impietrito, tanto sono ancora in tiro tutti i muscoli facciali!
Poi di colpo, mi sciolgo e le sorrido.